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Info
rilegatura: brossura
formato: 15 x 21 cm.
pagine: 384
ISBN: 978-88-6118-000-0
Editore: FioriGialli edizioni
Anno di pubblicazione: settembre 2006
Euro: 18.00
Approfondimenti
Introduzione
Indice dell'opera
Estratto dal Capitolo 5
Comunicato Stampa
Notizie sull'autore
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Estratto dal Capitolo 5 << torna indietro
Menon e io andammo da Vinoba per ricevere la sua benedizione. Vinoba stava ancora camminando nello Stato di Assam.
Quando arrivammo ci accolse col suo ben noto sorriso. Aveva già avuto notizie del nostro progetto e, aprendo un atlante davanti a sé, cominciò a saggiarci sul nostro viaggio. Volle sapere che itinerario intendevamo seguire, quali preparativi avevamo già compiuto e che Paesi avremmo visitato.
Il mattino dopo ci unimmo a lui nel suo ‘eterno’ camminare. Mise il braccio destro sulla mia spalla e quello sinistro sulla spalla di Prabhakar e così camminammo. Chiese: “Quanto denaro portate con voi?” Gli dicemmo che degli amici si erano impegnati a contribuire in parte alle nostre spese e a farci trovare valuta straniera in alcuni dei Paesi che avremmo attraversato.
Vinoba divenne silenzioso: “Ci dai la tua benedizione?” gli domandai. Rimase in silenzio ancora qualche momento, poi disse sommessamente: “Il viaggio è lungo. Avrete bisogno di protezione: voglio darvi due ‘armi’ per proteggervi.” “Come possono persone nonviolente portare armi?” chiesi.
“Persone nonviolente portano armi nonviolente”, fu la risposta di Vinoba. “La prima arma è che voi rimarrete vegetariani in qualunque circostanza. La seconda è che non porterete con voi denaro, neanche un centesimo.” “Rimanere vegetariani lo capisco, ma come faremo a vivere senza denaro durante un viaggio così lungo?” fu la mia risposta.
Vinoba disse: “Sei stato monaco mendicante per nove anni. Come hai vissuto senza denaro? La tua ciotola era vuota, perciò hai potuto riempirla. Il denaro è di ostacolo a un vero contatto con la gente. Se siete stanchi dopo aver camminato, troverete un albergo per dormire, un ristorante per mangiare e non incontrerete mai nessuno. Ma se non avete denaro, sarete costretti a parlare con la gente e a chiedere umilmente ospitalità. In secondo luogo, quando vi sarà offerta ospitalità, direte: “Mi spiace, ma sono vegetariano.” La gente vi chiederà perché e allora voi potrete parlare dei vostri principi di nonviolenza e di pace. Questo aprirà le porte alla comunicazione.”

Prabhakar e io ci scambiammo uno sguardo. Tutt’e due eravamo convinti del valore delle ‘armi’ di Vinoba e gli promettemmo che avremmo fatto quello che ci aveva suggerito. Vinoba disse: “Sono molto felice. Andate con coraggio e fiducia. Abbiate fede in Dio e fiducia nelle persone. Il mondo vi accoglierà a braccia aperte, in questo viaggio realizzerete voi stessi. Vi benedico. Dio vi benedica.”

Il cielo era carico di nuvole. Più volte dovemmo accelerare la nostra andatura per tenere il passo con Vinoba che procedeva velocemente lungo un sentiero a zig-zag che attraversava le montagne. Per noi era come se ci insegnasse a camminare. Nuovamente volle sapere dettagli sul nostro itinerario. Gli dicemmo che avevamo l’intenzione di attraversare il Khyber Pass, entrare in Afghanistan e passare al di là delle montagne Hindu Kush, quindi prendere la via diretta per Tashkent e da lì raggiungere Mosca.
Vinoba osservò: “Quella strada è certo la più diretta, ma non può essere la migliore per il vostro scopo. Nelle Hindu Kush ci sono pochi passi aperti tutto l’anno e gli abitanti sono molto rari. Perché non prendete la strada più frequentata attraverso il nord della Persia? I legami culturali tra India e Iran nei secoli sono stati rafforzati da molti viaggiatori.” Nuovamente mise le mani sulle nostre spalle e ci guardò in silenzio con grande amore.
Lasciammo Vinoba e raggiungemmo Delhi in treno. Già da tempo a Madras avevamo fatto richiesta per ottenere i passaporti. Le autorità di Madras avevano interpretato la nostra marcia come “azione politica” e avevano inoltrato le nostre domande al Ministero degli Affari Esteri a Delhi. Ci comunicarono che dovevamo fornire la somma di ventimila rupie come garanzia, in caso avessimo dovuto essere rimpatriati. Chi avrebbe potuto prendersi una simile responsabilità per noi? Finalmente il mio amico Kishor di Calcutta fornì la garanzia. Ma nonostante avessimo portato a termine tutte le formalità eravamo ancora senza passaporti.
Sotto il soffocante calore estivo facemmo il giro dei vari dipartimenti del Ministero degli Affari Esteri. Nello sconcertante deserto della burocrazia governativa il passaporto era come un miraggio, sempre irraggiungibile. Finalmente decidemmo di abbandonare questa assurda caccia e di cominciare il nostro cammino senza passaporti.
Le nubi che avevamo visto nell’Assam presto ci raggiunsero. Il 1° giugno all’improvviso si rovesciò dal cielo una pioggia torrenziale. Quel giorno ci recammo alla tomba di Gandhi. Mentre eravamo là, in piedi, in riverente silenzio, cominciò a soffiare una brezza fresca risvegliando in noi una nuova sensazione di vita. Vinoba ci aveva dato la sua benedizione sotto un cielo pesante di nuvole e ora, davanti a questa tomba, eravamo di nuovo avvolti dalle nuvole. In mezzo allo scrosciare della pioggia mi pareva di distinguere la voce dolce, quasi carezzevole di Gandhi: “Non dimenticate che le persone sono generose come le nuvole e i loro cuori possono essere teneri come le gocce di pioggia.” Gandhi e Vinoba. Vinoba e Gandhi. Era come se le loro benedizioni separate si fondessero in un unico suono - calmando le nostre ansietà, riempiendo di coraggio i nostri cuori. Formulammo il nostro impegno: solo le persone siano la fonte del nostro sostentamento e noi non porteremo alcun denaro durante la nostra marcia.

Un giornale pubblicò la notizia che due pellegrini di pace partivano a piedi da Delhi per raggiungere gli Stati Uniti col proposito di sostenere la causa della pace mondiale, ma il governo non aveva concesso loro i passaporti. A questo proposito vi furono delle interrogazioni in Parlamento e l’allora Primo Ministro Nehru promise che si sarebbe interessato personalmente della faccenda. Proprio mentre stavamo per raggiungere il confine con il Pakistan, il 2 luglio, due funzionari del Ministero vennero a cercarci e ci consegnarono i passaporti. Avevamo percorso quasi 600 chilometri in trentadue giorni sotto il sole scottante del mese di giugno. Ogni giorno ci eravamo messi in cammino nelle ore fresche dell’alba, di solito dopo una colazione di frutti di mango e latte. Ma durante i primi giorni soffrimmo a causa di vesciche sanguinanti ai piedi e dolori muscolari.
Trentacinque persone, fra uomini e donne, vennero a Baga, la città di frontiera, per augurarci buon viaggio. Il fatto che in Pakistan non conoscessimo nessuno li preoccupava pensando a quello che avrebbe potuto succederci quando saremmo entrati in quel Paese. Venne un’amica portando dei pacchi di cibo insistendo perché li prendessimo con noi nell’eventualità non trovassimo niente da mangiare: era in pensiero perché stavamo per andare in un Paese nemico. Dopo tutto India e Pakistan erano in stato di guerra. Noi rispondemmo che portare con noi del cibo era un segno di mancanza di fiducia nel popolo pakistano: “Questi pacchi di cibo, sono pacchi di sfiducia. Sei molto gentile, ma noi non possiamo accettarli.” La donna ci abbracciò piangendo “Siete pazzi, ma siete miei figli. Fate tutto ciò che potete per il bene del mondo….”
Questo era in assoluto il mio primo giorno fuori dall’India. Salutati i nostri amici, facemmo i primi passi in un Paese straniero. C'era da attraversare il controllo dei passaporti. L’enorme numero di poliziotti e soldati, pesantemente armati, sembravano guardarci con particolare attenzione, ma non ci chiesero niente. Uscimmo dalla dogana non senza un senso di ansia.
Un giovane ci stava aspettando: “Siete voi i due indiani che fanno un Pellegrinaggio per la Pace?” Non potevamo credere alle nostre orecchie e ai nostri occhi. “Sì”, dicemmo. “Ma come fai a saperlo?” “Ho letto sul mio giornale locale che due pellegrini stavano venendo con un messaggio di pace e senza un soldo in tasca. Ho deciso di venirvi incontro e di condurvi a casa mia a Lahore, venticinque chilometri da qui. Sono ore che vi aspetto, vi prego, salite sulla mia auto e siate miei ospiti.” E noi: “Sei molto gentile. Saremmo felici di venire a casa tua, ma non in automobile. Dacci il tuo indirizzo e verso sera dovremmo essere in grado di raggiungerti.” Il giovane non sembrava convinto: “Se per via trovate qualcuno che vi persuade di accettare la sua ospitalità, perderei l’occasione di ospitarvi.
Su, fate un’eccezione e venite adesso con me.” Noi gli promettemmo che saremmo andati a casa sua. Ci pensò un momento, poi disse: “Accetto la vostra promessa a una condizione: state camminando a piedi, dovete viaggiare più leggeri. Non avete bisogno degli zaini sulla schiena. Dateli a me come garanzia che verrete a ritirare il vostro bagaglio.” Ci mettemmo a ridere e gli consegnammo gli zaini.
Poco prima la mia amica indiana piangeva preoccupata che nessuno ci desse da mangiare in Pakistan. Adesso c’erano lacrime di gioia nei nostri occhi nel trovare un’ospitalità così premurosa. Poche ore dopo un altro uomo arrivò di corsa e ci fermò: “Il vostro ospite di stasera mi ha raccontato di voi. Vi ho preparato il pranzo. Vi prego di venire a riposarvi e a mangiare con me.” Eravamo commossi. Affamati e assetati entrammo
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