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Info
rilegatura: brossura
formato: 15 x 21 cm.
pagine: 288
ISBN: 978-88-6118-005-5
Editore: FioriGialli edizioni
Anno di pubblicazione: settembre 2006
Euro: 20.00
Approfondimenti
Indice dell'opera
Introduzione
Estratto dal primo capitolo
Estratto dal quarto capitolo
Estratto dal capitolo dieci
Comunicato stampa
Una recensione
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Introduzione << torna indietro
Il lavoro sulla carriera alternativa in cui sono stato impegnato negli ultimi anni è nato dall'osservazione del fatto che molte persone, che avevano lavorato diligentemente per sviluppaare la propria vita interiore, non riuscivano a trovare un posto adeguato nel mondo. La situazione era esattamente come cent'anni fa nel New England, quando Thoreau si lamentava "La società per la quale sono fatto non è qui".

La sindrome del "lavoratore alienato" può essere fatta risalire all'inizio del capitalismo, e anche prima, se consideriamo il fatto che lo schiavismo era la norma universale nel mondo antico. Ma è soltanto con le democrazie post-industriali che si è arrivati ad osare di postulare l'idea che qualsiasi essere umano potrebbe, anzi dovrebbe, sollevare la faccia dal fango della lotta per la sopravvivenza e aspirare a qualcosa di più elevato. In verità, anche la mia generazione di "baby boomers" - quella dell'espansione e del dopoguerra - è stata allevata a forza di idealismo mescolato con i cereali della prima colazione, e tutti rabbrividivamo di orrore alla prospettiva di "vent'anni di scuola, e poi ti mettono nel turno di giorno", come descriveva vividamente Bob Dylan.

Non c'è da meravigliarsi se sono sensibile a questi argomenti, perchè sono uno di quelli che ha lavorato duramente per sviluppare la propria vita interiore, per poi tornare ad affrontare il fatto che la società per cui sono fatto non era qui. La mia prima decisione eroica riguardo alal carriera è stata quella di abbandonare l'università di Harvard. Fin dall'inizio della mia vita avevo imparato quel tipo di gioco che uno studente proveniente da una scuola pubblica di Brooklyn deve fare per entrare ad Harvard, e abbandonare quella situazione fu una grossa affermazione di fiducia in me stesso, una dichiarazione che quello che sentivo dentro era più importante di quello che veniva riconosciuto dalla società fuori. Come molti altri della mia generazione, mi sentivo attratto dall'oriente. Trascorsi un certo numero di anni in India a recitare il ruolo del vagabondo, praticando differenti forme di yoga e meditazione. L'India era un po' come un campeggio estivo per me, e viverci rappresentava la via della minore resistenza. Più di una volto ho considerato la possibilità di seguire l'esempio di alcuni miei amici, che avevano buttato il passaporto nel Gange: dichiararmi morto al mondo e assumere una nuova identità.

Poi accadde una cosa curiosa. In una cittadina dell’India settentrionale mi capitò in mano un libro di Carl Jung, nel quale si spiegava la necessità di seguire lo sviluppo della propria psiche attraverso la mitologia culturale della propria tradizione culturale. Questa idea risvegliò qualcosa di profondo in me, e nel giro di un anno mi ero iscritto a un’università occidentale. Questa volta però stavo lavorando per passione. In effetti, ero spinto dalla passione della rabbia e dell’indignazione. Volevo imparare il sanscrito perché sospettavo che i guru, con i quali avevo studiato sia in India che in America, stessero presentando delle versioni superficiali e annacquate di una tradizione spirituale molto più profonda. L’unico modo per penetrare appieno il potere che sentivo presente in quella tradizione era imparare a leggerne i testi da solo. Mentre percorrevo questa strada mi resi conto che conoscevo la Bhagavad-gita ma non conoscevo Omero e Shakespeare, e la cosa non mi piacque affatto. Volevo disperatamente imparare. Volevo comprendere le radici della mia ricerca personale di un significato all’interno del contesto della mia cultura originaria, insieme con quello delle grandi civiltà del passato. Con questo obiettivo in mente mi imbarcai in un corso di dodici anni di studi sulla cultura orientale e occidentale, un viaggio che culminò nella laurea alla Columbia University. Mentre ero impegnato in questo studio ricevetti anche un altro tipo di educazione, qualcosa che non avrei mai potuto pianificare, ma che in ultima analisi mi fornì gran parte dello scenario e delle basi di questo libro.

Non voglio entrare nei dettagli su questa educazione alternativa, ma vi presenterò qualche schizzo che amplierò più avanti. Per alcuni anni, mentre ero alla Columbia, studiai con una donna di nome Hilda Charlton, che viveva in un modesto appartamento nell’Upper West Side di New York City. Hilda era una guaritrice potente e carismatica, che insegnava meditazione, ma soprattutto mi affascinavano i suoi poteri di realizzazione. Un giorno, alcuni dei suoi studenti erano impegnati a costruire un centro nell’hinterland di New York, e lei commentò senza particolare solennità, “Abbiamo bisogno di finestre”. Il giorno successivo una ditta di costruzioni abbandonò per strada circa ottanta finestre spaiate, complete di telaio e tutto. Un’altra volta alcuni di noi avevano comprato dei “biglietti scontati” per l’India, pagandoli in contanti. Purtroppo l’uomo che ce li aveva venduti morì di infarto pochi giorni dopo, e non riuscimmo mai ad avere quei biglietti. Quando i funzionari esaminarono i documenti nell’ufficio del defunto, scoprirono che aveva debiti con molte persone e che doveva consegnare centinaia di biglietti, ma non trovarono nessuna traccia dei nostri biglietti. La situazione non appariva certo molto rosea, e dopo un paio di mesi avevo ormai perso la speranza di ricevere il rimborso del biglietto. Hilda però si rifiutò di accettare questa conclusione; ogni giovedì sera, alla fine dei nostri incontri, chiedeva a un gruppo di alcune centinaia di persone di fare un “Om per i biglietti”. Poi ci chiedeva di visualizzare i biglietti che ci venivano restituiti. Dopo circa sei mesi, smisi di partecipare a questo rituale, pensando che fosse ossessivo e ridicolo. Ma un anno e mezzo dopo, quando tutti ebbero ricevuto il rimborso completo dei loro biglietti, dovetti ammettere che esistevano dei poteri di realizzazione di cui non sapevo nulla. Hilda mi diceva spesso, “Non ti preoccupare dei soldi, figliolo”, come se una simile preoccupazione fosse un segno di ignoranza e immaturità. Alla fine decisi che avevo qualcosa da imparare da questa donna, e rimasi nella sua cerchia per un po’.

In quello stesso periodo della mia vita avevo sentito parlare di un oscuro sciamano che viveva a Little Cuba, nel New Jersey, e che era capace di liberare le persone dagli spiriti. Quando ebbi infine l’occasione di incontrarlo, ne rimasi un po’ deluso, perché dal suo aspetto mi sembrava più un fattorino muscoloso che un esotico “uomo di medicina” come io lo avevo immaginato. Ma quando mi disse che avevo un uomo cieco nella mia aura rimasi estremamente colpito, perché da parecchio tempo soffrivo di problemi agli occhi che non riuscivo a risolvere. E quando mi disse che avrebbe eliminato il cieco, gli dissi che accettavo il suo aiuto. Mi ci vollero sei anni per decidere se quello che accadde in seguito era stata autosuggestione oppure una vera e propria operazione psichica, ma sembrò funzionare. Durante i sei anni successivi studiai con questo sciamano, Orestes, e imparai a conoscere i poteri dell’immaginazione — non l’immaginazione della fantasia, ma il potere di costruire immagini e visualizzarle insito nella psiche umana.

Dopo un certo periodo di apprendistato con Hilda e Orestes, sostenuto anche dai miei studi sul simbolismo interculturale alla Columbia, a un certo punto cominciai a lavorare io stesso come consulente. Grazie ai miei contatti prolungati con questi due insegnanti, godevo di un collegamento aperto con la comunità New Age e molta gente veniva a consultarmi. Non mi ero mai fatto pubblicità, e non avevo mai affermato di avere delle facoltà fuori dall’ordinario, ma sentivo effettivamente una forte vocazione a lavorare con la gente, e seguivo semplicemente il mio cuore.

Trascorsi alcuni anni a lavorare come “esorcista antiguru”, aiutando le persone a superare il trauma della sindrome da guru — una realtà che conoscevo molto bene per esperienza personale — e mi sentivo molto soddisfatto di quello che facevo, ma a un certo punto mi resi conto che nella vita di molti dei miei clienti esisteva un ricorrente insieme di problemi. Persone che mi raccontavano delle loro gloriose vite passate di faraoni e regine continuavano a lavorare come commessi ai grandi magazzini. Che cosa c’era di sbagliato? Perché sembrava che le persone spirituali soffrissero di un’incapacità funzionale cronica? Perché mai, non molto tempo dopo aver avuto qualche visione estatica o esperienza trascendentale, queste persone ricadevano nello stesso pantano in cui nuotavano prima della “rivelazione”? Chiaramente, doveva esserci qualche problema.

Una delle domande più importanti che i miei clienti continuavano a farmi era: “Che cosa dovrei fare? Qual è il mio posto particolare nel mondo?”. E chi faceva queste domande di solito non aveva la più pallida idea di quale potesse essere la risposta. Mi diventava sempre più chiaro che le incongruenze tra il mondo interiore delle persone e le loro possibilità esteriori erano sempre più macroscopiche. Man mano che diventavo più esperto, cominciai a lavorare con persone che si trovavano nella situazione opposta: individui con professioni di grande prestigio sociale che si sentivano estremamente frustrati dalla loro incapacità di vivere una vita autentica all’interno degli schemi rigidi e dei ruoli del loro lavoro. Cominciai anche a lavorare con studenti che si stavano preparando ad entrare nel mercato del lavoro e che giustamente si chiedevano se dovevano arrischiarsi a seguire i propri sogni e partecipare allo stesso tempo a quello che sembrava un ordinamento economico irrazionale e spersonalizzante.

Dopo un certo numero di anni su questa strada, misi su un “laboratorio di realizzazione”. Eravamo dieci persone, che si incontravano ogni settimana per quasi un anno, e lavoravano insieme per capire — non solo teoricamente ma anche praticamente — in che modo allineare il proprio mondo interiore con il mondo esteriore. Lavoravamo con i rituali, le tecniche di meditazione, il potere della suggestione, differenti forme di proiezioni di mete, e con l’amplificazione dell’intenzione attraverso lo sforzo collettivo. Il successo più importante del nostro lavoro insieme è stato lo sviluppo del modello dei chakra come aiuto per la realizzazione. Più lavoravamo con questo modello, più ci diventava chiaro che si trattava di uno strumento ideale per sviluppare una potente interfaccia tra il mondo interiore e quello esteriore. Non mancavano certo le informazioni sui chakra in sé, e già parecchie persone in passato avevano fatto un buon lavoro applicando il modello dei chakra alla salute e alle questioni psicologiche. Quando cominciammo ad applicare il modello dei chakra alle questioni di lavoro, trovammo il sistema perfetto: chiarificando le questioni collegate con i particolari centri di energia nel corpo, potevamo tracciare la mappa dei percorsi dal mondo interiore al mondo esteriore. Questo ci ha permesso di cominciare a concepire e creare strategie per la creatività e lo sviluppo di carriere alternative che fossero effettivamente centrate sul corpo, anziché seguire il sistema diffuso di cercare di adattare il corpo al mondo del lavoro.

Ben presto mi resi conto che avevo qualcosa di vero e originale da offrire come contributo allo studio della realizzazione. Sentii che era arrivato il momento di “rendere pubblica” la cosa, e cominciai a tenere diversi seminari sulla relazione tra il proprio essere interiore e il proprio posto nel mondo. Per altri cinque anni sviluppai questo lavoro, raffinandolo con l’esperienza derivata dalla partecipazione di centinaia di persone di ogni gruppo di età, orientamento sociale e occupazione. Alla fine alcuni metodi sperimentati ed efficaci si sono cristallizzati nei seminari sulle carriere alternative e nel materiale presentato in questo libro.

La questione della vocazione professionale è estremamente seria, e merita una sincera pausa di riflessione. In realtà, è davvero necessario separare la verità del nostro essere dal nostro vivere nel mondo? Molto spesso l’ideale spirituale è stato contrapposto al mondo materiale. Così le persone consapevoli spiritualmente sono spesso considerate (e si considerano) persone non funzionali, prive del potere di tradurre le proprie visioni interiori in realtà di lavoro. Quando vogliamo realizzare un progetto non chiamiamo un sacerdote, chiamiamo la banca. Allo stesso modo, le persone funzionali sono spesso considerate non spirituali, completamente assorbite in una realtà quotidiana lavorativa fatta di orari e di scadenze — almeno finché non hanno il loro primo infarto.

Bisogna davvero perdere il mondo per trovare la propria anima? Stiamo ancora operando, sebbene a malincuore, secondo un paradigma fuori moda che separa il mondo interiore da quello esteriore, lo spirito dalla sua manifestazione concreta? Se siamo effettivamente gli stessi esseri nel mondo del lavoro e nei regni più protetti dell’esperienza interiore, perché allora il nostro mondo interiore e quello esteriore non dovrebbero sostenersi a vicenda? Io sostengo che finché non ci muoviamo in questa direzione, nessuna buona intenzione sarà sufficiente a cambiare la natura dell’occupazione professionale in questa società, e se non modifichiamo il modo in cui ci avviciniamo all’atto e all’arte di guadagnarsi da vivere, coltivare qualche genere di vita interiore diventerà sempre più difficile.

La nostra realtà riguardo al lavoro cambierà quando riesamineremo profondamente il concetto stesso del lavoro, quando metteremo l’economia nell’ottica più vasta dell’interdipendenza evolutiva di ogni essere. Da Karl Marx a Hazel Henderson, le voci della persuasione suggeriscono che la trasformazione del luogo di lavoro è un prerequisito necessario per la libertà umana. Io sostengo che questa trasformazione richiede anche un passo essenziale per riportare la sacralità nella nostra cultura. Più di qualsiasi abilità o prodotto, sarà il modo in cui noi sintonizzeremo il nostro lavoro con le nostre più profonde intuizioni sulla vita, a rappresentare un contributo genuino alla comunità mondiale emergente. Creare questo allineamento — per trasformare la nostra vita in un’opera d’arte — costituisce uno scopo ambizioso, ma non irraggiungibile. Nei consigli d’amministrazione, negli uffici, negli studi tecnici, e in imprese che lavorano in campi che non erano mai stati descritti prima dai manuali di orientamento professionale, stanno prosperando persone che hanno creato un’integrazione interno/esterno nella loro vita, e possono ispirarci a fare altrettanto. Per di più la loro prosperità — invece di derubarli della virtù, dell’equilibrio interiore, e della consapevolezza — deriva proprio dal loro equilibrio interiore. Nel nostro cuore, tutti sappiamo che staremmo molto meglio se facessimo quello che ci piace fare. Il successo del libro di Marcia Sinetar Do What You Love, the Money Will Follow (Fate quello che amate fare, i soldi arriveranno), e di altri libri sul giusto modo di guadagnarsi da vivere che sono apparsi di recente, rivelano un risorgere generale dell’aspirazione a un impiego che abbia un significato più profondo. Non è però altrettanto facile tradurre i nostri ideali in una forma pratica e spesso, quando ci proviamo, scopriamo che nel campo operativo esistono delle variabili che avevamo completamente trascurato. Quello di cui abbiamo bisogno sono metodi tangibili e anche visioni di una nuova società. Crea il lavoro che ami offre un procedimento graduale per creare condizioni di autosufficienza armonizzate sui nostri più profondi livelli di integrità, passione e significato.

Facciamoci coraggio: entrando nel nuovo millennio, quello che è stato possibile per una sola persona può diventare possibile per molti — per chiunque, in effetti, sia pronto a sfidare i presupposti, che si oppongono alla vita, del sistema lavorativo attuale e sia disposto a osare di diventare una forza attiva nella trasformazione del nostro mondo.
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